Boris 4: quattro motivi perché no (e quattro perché sì)

Così, de bbotto, senza senso.

Così, de bbotto, senza senso.

Dopo anni di voci di corridoio, desideri, mezze parole degli addetti ai lavori e smentite più o meno solenni, Boris 4 è stato ufficialmente annunciato. La nuova stagione della “fuoriserie” italiana arriverà su Star, catalogo Disney+, probabilmente nell’autunno del 2021, undici anni dopo la conclusione della serie. Undici anni riassunti abilmente da cinquantatré secondi di teaser, in cui René Ferretti (Francesco Pannofino), sole attorno cui orbitano le vicende di Boris, parla al telefono con un interlocutore misterioso, dicendo rassegnato che “non c’è nessun progetto all’orizzonte”, salvo poi mettere il piede nella porta: “figurati se non ho idee da sviluppare”, con quelle due dita a forbice e l’aria sorniona che caratterizzano il personaggio più di quanto non facciano l’aria arruffata e la voce cavernosa. “Siamo vecchi, non me le fanno fa’”, dice, prima di lamentarsi dell’ennesima chiamata del giorno (in cui è facile leggere un parallelismo con le richieste incessanti di fan e giornalisti in questi undici anni: “Boris 4 si farà?”). Dall’altro capo, anche se non la sentiamo, c’è Arianna Dell’Arti (Caterina Guzzanti), seconda in comando e vera autorità sul set di Occhi del cuore, che viene liquidata con un “non è vero niente, non si fa, non ci facciamo illusioni, dillo anche agli altri”. Un classico caso di “tanto tuonò che piovve”, proprio com’è successo nella realtà. Negli anni, Boris ha infatti raggiunto e superato lo status di cult, tanto che gran parte del suo pubblico e gli stessi interpreti hanno cominciato a sperare e domandare a gran voce un ritorno, culminato con l’annuncio del 16 febbraio.

Ma, come ben sappiamo, riportare sullo schermo serie e personaggi amatissimi non è sempre un’operazione semplice, anzi, spesso è vero il contrario: più un’opera è compiuta e centrata, maggiore è il rischio che una nuova appendice ne rovini il ricordo, l’allure, la patina di perfezione che le abbiamo applicato prima di appenderla su una parete della nostra memoria. Questo articolo nasce proprio da questa consapevolezza, dalla saggezza mutuata dai mille rewatch (“Mai andare oltre la terza stagione”, dal vangelo secondo Boris 3:10), ma anche dall’impossibilità umana di rimanere indifferenti davanti a un annuncio del genere, ché se qualcuno può riuscire a scardinare la meschinità e la rassegnazione dei corsi e ricorsi produttivi è proprio chi dei meccanismi produttivi si è sempre saputo fare beffe, parlando al cuore e alla testa di milioni di persone. Per questo, se anche voi siete dei pesci rossi di Schrödinger e non sapete se essere arrabbiati o entusiasti per l’annuncio di Boris 4, eccovi quattro motivi per rattristarvi e quattro motivi per gioire.

Perché no:

1. Operazione nostalgia

Partiamo dalle cose più semplici e scontate: se in undici anni non c’è stato un altro Boris, nemmeno da chi Boris l’ha fatto, è sintomo che qualcosa nel sistema dell’intrattenimento italiano è andato storto, e tutte le cose che non andavano, bonariamente “denunciate” da Mattia Torre, Luca Vendruscolo e Giacomo Ciarrapico, non sono cambiate poi molto. Del resto, lo stesso Boris «lo guardava pochissima gente, ed è diventato un culto grazie al passaparola e alla pirateria», sintomo che forse “un’altra televisione, diversa, non è possibile” (dal vangelo secondo Boris 3:13). Il grande pubblico, non solo italiano, pare essersi rivolto altrove, e i produttori sembrano aver identificato quell’”altrove” nel passato catodico. Non importa quanto indietro si debba andare, che siano gli anni Settanta, Ottanta o Novanta… ma non ci formalizziamo, fino al 2007 va bene, ché le TV HD Ready non erano poi così definite e un sacco di roba era ancora girata in 4:3. 

Se in undici anni non c’è stato un altro Boris, nemmeno da chi Boris l’ha fatto, è sintomo che qualcosa nel sistema dell’intrattenimento italiano è andato storto

La nostalgia, del resto, è un concetto relativo, e il fatto che Stranger Things sia uno dei prodotti Netflix più visti sulla piattaforma sta lì a dimostrarlo: dietro a una patina di Goonies e con abbastanza citazioni sparse a quei magici trent’anni, anche il canovaccio più scontato può diventare una calda coperta di Linus dalla quale è difficile uscire. Lo sa bene JJ Abrams, principe ereditario di Richard Donner e Steven Spielberg per antonomasia, che per dare una nuova speranza alla trilogia di Star Wars partita con il suo settimo capitolo, ha pensato bene di mettere davanti alla cinepresa la combriccola protagonista nei film usciti a cavallo tra i ‘70 e gli ‘80. Quello che voglio dire è che il rischio più grande di riportare sullo schermo Boris dopo undici anni è quello di non andare oltre a intenerire il pubblico con le faccette di un Pannofino inevitabilmente ingrigito, come già succede nel teaser. Un ennesimo colpo al cuore che ci ricordi quanto tempo è passato da quando eravamo giovani e speranzosi per un futuro diverso, nuovo, inimmaginato.

Un futuro che si schianta come una Leia volante qualsiasi.

2. Sindrome dell’arto fantasma

Anche perché, è bene ricordarlo, al timone della quarta stagione di Boris non ci sarà Mattia Torre, mancato nel 2019, e di fianco a René non ci sarà Itala, visto che anche Roberta Fiorentini ci ha lasciati lo stesso anno. Due defezioni importanti, dietro e davanti la macchina da presa, che rischiano di minare la chimica e la magia che hanno reso così memorabili le tre stagioni originali. Del resto, in tutte le varie interviste che si trovano in rete in cui compaiono insieme, i tre registi e scrittori sembravano un’unica entità, fronte unito contro le banalità e le storture che avevano subìto in anni dietro le quinte, al soldo di una produzione o di una rete particolarmente avara di libertà creative. In questo senso la prima stagione di Boris, partita senza un editor, ha aiutato i tre a prendere le misure e a trovare una voce sempre più chiara, arrivando alla fine della terza stagione con una chiusura che, con la sua rassegnazione e il suo rimanere appesa alle lungaggini molto italiane, sembrava concludere perfettamente l’epopea di cast e troupe. Il rischio è che, senza uno dei suoi membri, questo triumvirato illuminato perda l’equilibrio e lasci cadere le sue perfide, lucidissime stoccate nel vuoto, come se all’ultimo mancasse la presa, o non ci fosse una segretaria di edizione a tenere le fila delle riprese.

3. Negazione del lutto

Senza scadere troppo nella filosofia e nella psichiatria, è innegabile e naturale che, quando viene a mancare qualcuno a noi caro, la prima fase sia sempre quella della negazione, del rifiuto che ci sia stato portato via qualcosa a cui tenevamo. Nella società occidentale soprattutto, sembra sempre più evidente una certa tendenza a non voler accettare una fine onorevole, o rispettare un protagonista che si dirige verso il tramonto per non tornare mai più. Boris è finito da undici anni, e nessuno sembra averlo accettato davvero. Né gli spettatori, che anzi fanno i picchetti ogni volta che lo show sparisce dalle piattaforme di streaming, né soprattutto i protagonisti, rimasti indissolubilmente legati a quei ruoli. Certo, se i grandi attori di Hollywood faticano a smarcarsi dai loro grandi ruoli televisivi non possiamo certo pretendere che Alessandro Tiberi sbocci sul grande schermo, vista la pochezza del panorama italiano, ma è anche vero che, da fuori, si fa fatica a comprendere quanto siano vittime e quanto, invece, siano complici nel versare sale sulla ferita, considerata la cordialità e il possibilismo espressi fin qui a tutti quelli che chiedevano “ma, allora, la quarta stagione di Boris?”.

Boris è finito da undici anni, e nessuno sembra averlo accettato davvero

4. Aggiungere alla leggenda

Chiudendo idealmente il cerchio del primo punto contrario alla quarta stagione di Boris, se c’è una cosa che abbiamo imparato dal 2000 a oggi è che sequel, prequel e prodotti premasticati ai quali ci siamo abituati raramente aggiungono qualcosa nel panorama dell’intrattenimento e, ancora peggio, spesso finiscono per danneggiare l’opera originale. Che sia nei ricordi dello spettatore o fattualmente, all’interno dello stesso impianto narrativo, come successo con i vari retcon della galassia lontana lontana, voler raccontare ogni aspetto di una storia, di un personaggio o di un mondo non è sempre la scelta migliore, anzi: lasciare spazio all’immaginazione del pubblico è un espediente perfetto per coinvolgere lo spettatore, che a quel punto riempie i vuoti con la sua esperienza, il suo vissuto, e sente quella storia ancora più sua, incatenando il racconto nella memoria e alimentandone il ricordo e l’amore. Sarebbe un peccato vedere una serie tutto sommato “anti establishment” come Boris piegarsi a un meccanismo produttivo malsano, stagnante, che sfrutta l’immagine e il ricordo affettuoso degli appassionati per fare cassa e permettere ai responsabili di uscire dall’ombra della leggenda, ché del resto i rewatch e l’amore non pagano le bollette.

Cominciamo con tranquillità

Perché sì:

1. Twin Peaks – Il ritorno

A parte ricordare la citazione a Mulholland Drive (dal vangelo secondo Boris 3:12), mai mi sarei immaginato di accostare Boris a David Lynch. Eppure, lo sciamano del Montana è l’esempio più recente di come si schiantano le aspettative dei bastian contrari. Da sempre contrario a fornire spiegazioni delle sue opere, a voler approfondire significati e a scaldare il pubblico con coperte di Linus, dopo venticinque anni Lynch ha ceduto alle pressioni di mezzo mondo, tornando a Twin Peaks per chiudere una storia lasciata in sospeso, diventata cult e che, non a caso, come dicevo prima si è legata a doppio filo nel cervello degli spettatori. Dopo vari tira e molla produttivi, Lynch si è preso la guida e il controllo del progetto, ha riunito il cast storico e ha girato diciassette ore di cinema magistrale che, più che legarlo, hanno fatto esplodere il cervello dalla meraviglia. Twin Peaks – Il ritorno ci ha forse lasciato con più domande di quante non ne avessimo dopo la serie originale, ma ha saputo ritrovare l’essenza di Twin Peaks  – mai banale, disturbante, infinitamente stratificato – e metterla sotto una luce completamente nuova, affascinante, capace di aggiungere inedite chiavi di lettura e chiudere cerchi rimasti aperti da venticinque anni… aggiungendo anche un bel dito medio ai network che, probabilmente, avrebbero preferito un prodotto meno ermetico, proprio come successe quando decisero di svelare l’assassino di Laura Palmer a metà della seconda stagione perché il pubblico stava perdendo interesse. Ecco, se c’è qualcuno che può confrontarsi con questo parallelismo impossibile è Boris: proprio perché si tratta di un’altra serie impossibile e perfetta nella sua singolarità e intimamente incurante della soddisfazione del pubblico, il parto di Ciarrapico-Torre-Vendruscolo potrebbe ripetere quanto fatto nel 2017 da Lynch, e dimostrare che dentro alla scatola blu c’è del vero genio altrettanto irreplicabile.

Se c’è una serie che può confrontarsi con Twin Peaks è proprio Boris: due serie impossibili, perfette nella loro singolarità

2. Wish You Were Here

Quando raggiungi la notorietà, ti condanni a una vita di richieste di bis. “Ma, allora, la quarta stagione di Boris?” non è altro che una variazione di “suonateci la vostra più grande hit” o, meglio ancora, “quand’è che fate una reunion?”. Una domanda che deve essere detestabile, e che solo per alcuni è rimasta senza risposta. Tra i più fondamentalisti della separazione, la storia della musica ci ha regalato i Pink Floyd, band assolutamente geniale che, nel corso di oltre vent’anni, ha cambiato frontman e registri, spaziando dal racconto della gioventù spensierata alla politica, passando per tematiche personali forti e punti di vista poco lusinghieri sul mondo dello spettacolo, tratteggiato più volte nelle loro canzoni come una macchina incapace di ricordarsi i nomi di chi getta tra gli ingranaggi (“Come ti chiami?” “Alessandro.” “Dai Fabbrì!”, dal vangelo secondo Boris 1:01). Una profondità di tematiche dettata da divergenze creative e alimentata da lotte intestine per la guida del gruppo, culminate con l’addio di Roger Waters nel 1984 e una guerra fredda con David Gilmour che è proseguita fino al 2005. Quando Bob Geldof, cantante amico della band e protagonista nel film di The Wall, fece i salti mortali per portare il gruppo di nuovo sul palco per il concerto benefico del Live 8, Gilmour e Waters decisero di seppellire l’ascia di guerra: i loro problemi “erano meno importanti” di quelli delle nazioni più povere che Geldof voleva aiutare facendo pressione sui leader mondiali del G8. Inutile dire che i loro venti minuti eclissarono quasi completamente undici concerti in contemporanea mondiale, anche grazie a Wish You Were Here, dedicata al primo cantante della band Syd Barrett, che sebbene sarebbe scomparso (quasi) precisamente un anno dopo quell’esibizione, era già disperso da anni nei mondi onirici che lo avevano fatto splendere come un diamante. Pur nella sua assenza, Barrett è stato il collante dei Pink Floyd a prescindere da chi avesse il controllo creativo dei dischi e da quanti anni fossero stati lontani dalle scene. 

3. “Meglio andarsene un minuto prima, lasciando le persone con la voglia…”

Anche per quanto riguarda la quarta stagione di Boris, un ritorno dalla durata ridotta potrebbe essere un motivo per dire fortemente sì. Sei episodi di mezz’ora, a fronte delle tre stagioni precedenti lunghe il doppio, lasciano immaginare che Vendruscolo e Ciarrapico siano pienamente consapevoli che il salto oltre la terza stagione è complicato, e bisogna saper dosare le emozioni e la voglia di rimettere insieme la banda. Se avessero voluto capitalizzare il successo e incassare l’amore del pubblico urlante avrebbero potuto serenamente tornare prima, o realizzare un progetto più lungo e ambizioso. Sei episodi, invece, sembrano una giusta misura per farci sapere che vogliono dirci qualcosa, senza negare o contraddire il vangelo.

Sei episodi sembrano una giusta misura per dire qualcosa senza negare o contraddire il vangelo

4. Un atto d’amore

Se vogliamo trovare mezza piena la boccia di Boris 4, possiamo concludere dicendo che sarà soprattutto un atto d’amore verso Mattia Torre, un collante che, oltre ad aver sempre tenuto insieme la banda, ha saputo con i suoi colleghi dare voce a un mondo di persone integre, volenterose e desiderose di fare un lavoro che spesso viene spogliato del suo significato e liquidato a frase fatta, tormentone, faccetta, perché il grande pubblico non sembra vedere altro. Difficile immaginare ora se la direzione di Boris 4 sarà davvero lynchiana, o si “limiterà” ad andare dietro le quinte di un intrattenimento sempre più proiettato – purtroppo o per fortuna – verso modelli in abbonamento che sparano nel mucchio di sentimenti intangibili e facce conosciute pur di spremere gli spettatori-clienti. Quello che è facile immaginare è che, dopo una dichiarazione di intenti e undici anni di stoico immobilismo, qualcosa è cambiato, e Boris tornerà sulle nostre televisioni. Chissà se ci piacerà quello che ha da dirci, o se lo troveremo Troppo frizzante.

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