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Lorenzo Bonaffini 03/03/2021 11 minuti
In un mondo dove l’industria dell’intrattenimento è ormai sempre più orientata verso un netto disimpegno, complice anche lo svilimento della pratica e del concetto stesso di politica, sembra quasi un ossimoro accostare manga e radicalismo. Arrivati ai (poco) ruggenti anni Venti, è pacifico affermare che manga e anime sono comunemente accettati nell’immaginario collettivo. Sicuramente in Giappone, dove hanno smesso di essere una nicchia già da parecchi anni, ma anche nel resto del mondo, dove ormai la cultura otaku è mainstream grazie alla sua larga diffusione non solo all’interno dei cosiddetti millenial, ma anche tra le fila dei nativi digitali. Abituati, insomma, alla dittatura del kawai e del moe se dobbiamo pensare a scontri di piazza, estremismo e terrorismo politico, un tankobon non è certamente la prima cosa che ci viene in mente. Eppure, è la stessa Storia di questo stratificato medium a sbugiardare una simile prima impressione.
C’era un tempo in cui dire “rivolte studentesche” non suonava solo come una scusa per giocare a fare i rivoluzionari, assunto del tutto vero anche per il Giappone che, esattamente come in Occidente, tra la metà degli anni Sessanta e l’inizio dei Settanta ha ospitato tra i più fervidi movimenti di protesta del mondo asiatico. Un paese che sin dall’immediato dopoguerra aveva da sempre recepito alcune tematiche del socialismo rivoluzionario e anti-imperialista. Grazie soprattutto a un terreno reso fertile dalla numerosa presenza di basi militari americane nell’immediato dopoguerra e dai grandi sommovimenti socio-demografici che avevano visto un esodo dalle campagne alle città con la conseguente formazione di un vero e proprio proletariato urbano.
In questo clima nasce lo Zengakuren, il sindacato nazionale studentesco giapponese che, negli anni Sessanta, giocò un ruolo fondamentale nell’organizzare le ondate di proteste che avevano colto le università. Proteste caratterizzate da una grande violenza e da istanze rivoluzionarie esplicite. Non è un caso se è proprio da qui che parte l’Armata Rossa Giapponese (Nihon Sekigun), gruppo terroristico nato in Giappone ma con una forte vocazione internazionalista. Attivo poi anche negli anni Settanta in Medio Oriente (Massacro di Lod), e addirittura negli anni Ottanta in Italia con alcuni attentati a Napoli e Roma contro ambasciate e circoli ricreativi statunitensi.
Ormai la cultura otaku è mainstream
Non deve stupire, quindi, se alcuni membri del gruppo impegnati nel dirottamento del volo 351 della Japan Airlines (1970), al momento della proclamazione dell’inizio della tanta agognata rivoluzione, abbiano deciso di citare esplicitamente Ashita No Joe (Rocky Joe, 1968-1973), uno dei manga più socialmente rilevanti che il Giappone abbia mai visto. Asserendo di essere loro il “Joe del domani”, l’Armata Rossa Giapponese dava un’idea della rilevanza che questa forma di intrattenimento stava assumendo tra i giovani. In quel momento si stavano appropriando dell’epica dell’uomo medio; la storia di un orfano, outsider, che veniva da un vero e proprio ghetto e tentava di autodeterminarsi – il domani (ashita) del titolo originale giapponese non è che un intento programmatico esistenziale – fu un vero e proprio shock culturale per molti.
Rocky Joe, uno dei manga più socialmente rilevanti che il Giappone abbia mai visto
In un paese dove il consumismo stava prendendo piede ma le generazioni che ne erano più attratte non avevano a disposizione sufficienti risorse economiche, i manga, solitamente poco costosi, stavano cominciando a diventare qualcosa di più di semplici strisce con disegni per bambini. Rocky Joe fu addirittura inserito in alcune liste censorie dal governo, ma ormai il vaso di Pandora era stato aperto, e quegli stessi bambini che negli anni Cinquanta erano cresciuti con manga infantili non volevano più rinunciare a questo svago; al tempo stesso, però, ne chiedevano un deciso svecchiamento. Del resto, loro per primi erano passati dall’età dei giochi a quella della vita attiva all’interno della società. Quel momento fondamentale in cui cominciamo ad avere un’agenda e una coscienza politica all’interno della nostra essenza umana.
Se anche Fujiko Fujio, autrice di un’istituzione nazionale come Doraemon (1969-1996) e di Kaibutsu-kun (Carletto il principe dei mostri, 1965-1969), molto conosciuto in Italia grazie al suo adattamento anime, disegnava biografie di Mao Zedong, è quasi pleonastico affermare che politica e manga non solo erano legati a doppio filo ma, anzi, fu proprio la politica a portare quella spinta necessaria a rendere quella forma di intrattenimento più matura. Il fattore decisivo fu il sempre maggiore avvicinamento del manga mainstream al movimento dei gekida, fumetti con forti connotazioni artistiche già presenti alla metà degli anni Cinquanta; alla metà degli anni Sessanta possiamo dire che il processo è pienamente sviluppato. Ne sono chiari esempi opere come Akuma-kun di Shigeru Mizuki (1963-1964), una storia di stampo sovrannaturale che però al suo interno nasconde tematiche e sentimenti anti-bellici. Lo stesso autore tratterà poi il tema della Seconda Guerra Mondiale, autobiografico data la sua condizione di reduce, in Komikku Shōwa-shi (1988-1989) ricevendo anche molte critiche per la crudezza con cui mostrò i crimini di guerra dell’esercito giapponese. Di tutt’altro tenore Sazae-san di Machiko Hasegawa (1946-1974): un popolarissimo slice of life ante litteram che proprio in quegli anni vide una nuova predominanza di tematiche sociali nella sceneggiatura, con tanto di protagonista che diventa attivista femminista. Un po’ come se in un fotoromanzo de Le Ore si parlasse di femminismo e patriarcato (se solo ti fossi preso la briga di leggerli, oltre che di guardarli, magari ti saresti reso conto che era davvero così, ndkeiser).
I manga, solitamente molto economici, stavano cominciando a diventare qualcosa di più
Mangaka furono impegnati anche nell’arte propagandistica, disegnando pamphlet e volantini in occasione di proteste e occupazioni e inaugurando una tradizione all’interno della comunicazione politica giapponesi: basti pensare che ancora oggi i partiti – di tutti gli orientamenti – utilizzano estetiche manga per veicolare i propri messaggi. Quando Shinzo Abe, ex primo ministro liberale giapponese, volle promuovere una serie di cambi alla costituzione nel 2015, decise proprio di pubblicare un manga. Immaginate Renzi che pubblicizza il referendum sulla Costituzione del 2016 con fumetto in cui una versione moe della Boschi ci spiega perché è bene cambiare. Arte e politica, quindi. Connubio antichissimo che si ripropone in questa veste post-moderna, molto ben visibile anche nell’opera di un vero e proprio genio come Genpei Akasegawa, uno dei più influenti artisti giapponesi delle avanguardie culturali del dopoguerra. Vero esponente della controcultura nipponica era un artista a tutto campo, specializzato in happening e performance. Sempre a cavallo tra situazionismo e dadaismo sfrenato, Akasegawa è stato però anche un prolifico mangaka. Il suo Sakura-gahō (1970-1971) è a tutt’oggi ancora uno dei capolavori della satira politica. Una sorta di Charlie Hebdo marxista, fu addirittura costretto a interrompere le pubblicazioni sull’Asahi Journal, uno dei settimanali di manga più a sinistra di sempre, che arrivò a censurare Akasegawa. Personaggio controverso e innovatore, disegnò anche locandine per il reclutamento dell’Armata Rossa Giapponese e continuò a esplorare il mondo dell’arte fino alla sua morte nel 2014.
Anche se il processo che trasforma le controculture in sottoculture è ormai irreversibile, e il capitalismo consumistico ha capito molto bene come inglobare ogni forma di dissenso all’interno della logica del profitto, c’è ancora un Giappone che resiste, e dove le tematiche politiche sono presenti. Ovvio, i tempi sono cambiati e le condizioni sociali estremamente diverse. Sarebbe impensabile pensare a un radicalismo uguale a quegli anni, ma nonostante tutto l’attenzione verso quei fatti e quelle istanze politiche non è mai venuta veramente a mancare, sia negli anni Novanta che in tempi più recenti. Boku no Mura no Hanashi di Akira Oze (1992-1994), che può essere tradotto brutalmente come “La storia del mio villaggio” è un manga intra-generazionale capace di raccontare la lunghissima storia delle proteste dei contadini contro la costruzione dell’aeroporto internazionale di Narita.
Una lotta iniziata negli anni Sessanta e sviluppatasi anche dopo l’apertura dell’aeroporto stesso fino ai giorni nostri. Red 1969-1972 (2007) di Naoki Yamamoto non si fa scrupoli a mostrare, con una volontà quasi cronachistica, la storia dell’Armata Rossa Unificata, un gruppo di terrorismo domestico giapponese nato dalla fusione dei membri ancora in Giappone dell’Armata Rossa Giapponese e dalla Sinistra Rivoluzionaria, studenti maoisti famosi per aver teorizzato gran parte dell’impianto teorico delle rivolte studentesche di quegli anni. Per intenderci, erano quelli che hanno “inventato” l’idea che le università fossero dei grandi diplomifici atti a creare schiavi laureati pronti per essere impiegati nelle grandi aziende. Una tematica ancora attuale per un paese dove l’istruzione ha sicuramente un ruolo particolare, e dove le aspettative sociali spesso uccidono – letteralmente.
Il processo che trasforma le controculture in sottoculture è ormai irreversibile
La portata, anche drammatica, delle violenze studentesche è ben visibile anche in Sakamichi no Apollon di Yuki Kodama (Jammin’ Apollon, 2007-2012) poi adattato in anime da Shin’ichirō Watanabe (Cowboy Bebop), dove nel Bildungsroman di due amici che suonano jazz alla fine degli anni Sessanta irrompono prepotenti le proteste, le basi americane e più in generale quel clima di fervore e cambiamento culturale che, come in Occidente, aveva pervaso la società giapponese. Ma il fumetto politico può essere anche staccato dal radicalismo di sinistra e approdare al nichilismo. Come succede in Gōmanizumu sengen (1995-2003) di Yoshinori Kobayashi, un Michel Houellebecq dei manga, personaggio di difficile classificazione e che, nonostante sia stato tacciato più o meno velatamente di vicinanze con gli ambienti dell’estrema destra, risulta più un personaggio anti-conformista a tutto tondo con la forte tendenza alla contrapposizione di estremi.
I suoi personaggi hanno sempre fortissime convinzioni, ricalcando tra l’altro uno dei topoi classici della letteratura manga, e le opinioni espresse riguardando sempre temi socialmente delicati che vengono trattati in modo forte e senza nessun filtro. Otaku e idol tornano però a fare capolino nelle università quando anche il profilo social dello Zengakuren oggi usa immagini moe per veicolare i propri messaggi, fino ad arrivare al massimo della post-post modernità quando al Comiket, celeberrima fiera dedicata al mondo dei dōjinshi, è possibile trovare il cosplay di un’attivista (katsudōka) nella Tokyo del ‘68 o un banchetto dello Zengakuren intento, letteralmente, a vendere la rivoluzione agli otaku sotto forma di fanzine propagandistiche.
Un connubio fuori dall’ordinario, quello tra manga e politica, ma che inaspettatamente ha significato molto più di quello che saremmo portati a pensare. Il matrimonio, però, non è probabilmente destinato a durare ancora a lungo: ne è testimone il cambio di status della letteratura manga stessa. Quando ancora conteneva al suo interno un certo germe di controcultura, essendo comunque osteggiata da parte delle istituzioni culturali e morali del paese, tematiche politiche riuscivano a farsi strada anche nelle opere più inaspettate, ma nel momento in cui anche il manga e la cultura otaku ritornano nel pancione di “mamma capitalismo” la strada appare già segnata. Noi, nel frattempo, non possiamo che continuare a resistere.
FONTI BIBLIOGRAFICHE
Questa disamina è stata in gran parte possibile grazie a una serie di studi accademici e al lavoro di tanti ricercatori. Un ottimo riassunto, nonché fonte ispiratrice di questo articolo, si trova nel saggio Political Comics: Japan R1adicalism and New Left Protest Movements Told Through Manga di William Andrews, studioso della controcultura e dei movimenti di protesta in Giappone. Lì è presente una vera e propria bibliografia, dalla quale partire se interessati ad approfondire le tematiche. Molti dei manga citati, inoltre, non sono mai stati tradotti e commercializzati in Occidente, ma alcuni sono facilmente reperibili come scan in lingua inglese.