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Lorenzo Bonaffini 01/03/2019 7 minuti
Qualche giorno fa il nostro Todeschini nazionale ha tuonato contro un’Amaca di Serra a tema battle royale. Qualche giorno fa il TeamCrimine ha rischiato la denuncia per aver postato contenuti di Repubblica dietro paywall. Eppure questo brutto pezzo che state leggendo non vuole parlare né di Serra – sic transit gloria mundi – né di Claudio.
Uno degli argomenti preferiti dai nostalgici della mia generazione è quello dell’Internet dei pionieri, la frontiera del nuovo sogno globale di libertà e ricostruzione di una società diversa, l’utopia splendente che, all’inizio degli anni Novanta, ci aveva fatto credere che tutto sarebbe cambiato. Persino Serra – sì, sono un bugiardo: questo pezzo alla fine parla di lui – ne è rimasto affascinato, tanto da metterlo in contrapposizione all’Internet brutto e cattivo di oggi, comandato da nerd miliardari in felpa e jeans (quando va bene, altrimenti ci rimangono i maglioncini a collo alto di Steve “R.I.P.” Jobs) e sporcato dall’irresistibile trasformazione di uno spazio puro e anarchico in uno spazio markettaro e anarchico.
Era l’estate del 2006. Un giovane uomo si preparava ad affrontare una delle tappe fondamentali della vita di ciascun giovane uomo che ha la fortuna di vivere in quello stretto lembo di terra che i più chiamano Italia: la maturità, l’esame di Stato. In pratica, una stupida convenzione che pensa che per giudicare il tuo essere diventato adulto si debba studiare un anno di programma scolastico in un mese, oliando tutto con tesine che – maldestramente – tentano di collegare Justin Bieber, il tessuto urbanistico di New York, il fascismo e il lungomare di Bari (fonte assolutamente falsa: l’elenco di proposte di argomenti per tesine di studenti.it). Lo schermo del PC del nostro giovane uomo lampeggiava, mostrando una distro di Linux in esecuzione, OpenOffice aperto e un foglio virtuale che recitava un titolo ben poco sibillino: l’etica hacker. Da lì a poco quel giovane uomo sarebbe finalmente diventato adulto, tra i typo di una tesina scritta in una notte e un paio di domande su Popper e Oscar Wilde.
Nel 2006 ancora pensavamo che per rimorchiare una ragazza bastava inventarsi uno status figo su Messenger e imparare l’uso tattico di trilli e incommentabili emoticon. YouTube conteneva perlopiù video dalla qualità dei Super 8 dei nostri genitori e Facebook era ancora solo un metodo socialmente accettato per fare stalking alle compagne universitarie. Twitter non risultava pervenuto. Nel 2019 YouTube ha sostituito la televisione mentre Facebook è un metodo socialmente accettato per fare stalking alle compagne universitarie. Twitter non risulta pervenuto. È proprio vero che certe cose non cambiano mai. Alla metà degli anni 90 si pensava invece che Internet potesse essere un luogo di sperimentazione sociale assoluta, fuori da ogni tipo di logica del capitale. Un luogo dove le sovrastrutture della nostra società potessero venire annichilite tra un sito fatto su Geocities che parla di fantasy utilizzando frame e JPEG sgranate, e un paio di post su it.politica.internazionale. Nel 2019 si pensa che per fare del buon giornalismo si possa lanciare un sito fatto su Geocities e con grafiche sgranate. È sicuramente vero che certe cose non cambiano mai.
Uno degli argomenti preferiti dai nostalgici della mia generazione è quello dell’internet dei pionieri
Negli anni Dieci del ventunesimo secolo il dibattito politico si è spostato sulla Rete. Una rivoluzione che cammina su quel sottile filo che passa tra l’analisi politica del whitesplaining a Hollywood e la shopping list di un influencer. La gentrificazione di Internet, i costi aumentati dello stare in rete, lo strapotere della pubblicità come unico modello economico possibile. I brutti e cattivi uomini bianchi di mamma Google hanno trasformato il paradiso in un purgatorio schizofrenico, ché alla fine l’inferno è passato di moda. Eppure nel 2006 c’era ancora chi ci credeva. Eppure nel 1996 c’era ancora chi ci credeva, e l’inizio lo aveva visto per davvero. Quel giovane uomo che si dilettava in una tesina basata sul libello Manifesto hacker di Wark McKenzie pensava davvero di poter cambiare il mondo con Internet. Non accorgendosi, però, come sia incontrovertibilmente vero che certe cose non cambiano mai.
Che Internet sia stato creato a scopi militari è una nozione così noiosa che addirittura gli studenti italiani, educati in uno dei sistemi scolastici più conservatori della storia dell’umanità, lo imparano. Che Internet sia diventato il modo migliore per mettere d’accordo tutti sul disaccordo è una nozione così lampante da far capire, definitivamente, quanto questo sia un pezzo davvero brutto. La Chimera è un libro di Sebastiano Vassalli, un tizio che quando aveva letto Manzoni aveva deciso di strappare a forza quel velo pietoso che lo scrittore milanese amava attorcigliare attorno ai suoi personaggi. La chimera è anche un mostro della mitologia. Ma anche Internet è una chimera, soprattutto quello delle origini. Il germe di quello che sarebbe stato era già presente: si trattava solo di trovare i tempi e le persone giuste. Il nuovo ciclo dello scontro politico, che pensava di utilizzare strumenti della difesa militare per portare avanti fumosi concetti di attivismo, era il campo da gioco perfetto per il nuovo sport globale: lo scontro acritico tra posizioni. Tra accusare di morte una quindicenne che si dice indignata per situazioni razziste viste su un treno e il j’accuse acritico di un barbuto liberal-sociale lavoratore dell’IT che vive nel quartiere Isola a Milano ci passano molte meno differenze di quanto si possa credere. Internet ha sempre tirato fuori il peggio, d’altronde certe cose non cambiano mai.
I brutti e cattivi uomini bianchi di mamma Google hanno trasformato il Paradiso in un Purgatorio schizofrenico
Non è per niente buffo pensare che tutto questo è nato, cresciuto e sviluppato in un pezzo di terra tutto sommato piccolo (la Silicon Valley), dove i nostri nuovi miliardari-guru preferiti hanno potuto perfezionare quello che neanche il governo e l’esercito erano mai riusciti a confezionare: il più grande strumento di controllo che sia mai stato creato. Se poi questo strumento era in grado di far fare soldi come nessun altro artefatto della mente umana aveva mai fatto nella storia, beh, chapeau. Adriano Olivetti era un industriale piemontese da molti considerato una sorta di santone del boom economico italiano del Secondo dopoguerra. Adriano Olivetti costruiva calcolatori. Adriano Olivetti è morto, ma non nel suo letto e per alcuni questa è l’inconfutabile prova che sia stato ucciso dalla CIA. La Silicon Valley avrebbe dovuto nascere e prosperare nelle terre del Canavese, se solo non ci fosse stata la Guerra Fredda. Adriano Olivetti, fortunatamente, ci ha abbandonato prima che il Piemonte diventasse una San Francisco con Olivetti Bus che trasportano frotte di lavoratori tra una gentrificata Torino e i grattacieli di Ivrea City. È così che in Italia ci siamo dovuti arrendere a vedere il mondo tecnologico, che è poi oggi l’unico reale, in mano a discendenti di chi amava fare genocidi e sollazzarsi con il portare democrazia rappresentativa in paesi senza una minima tradizione illuministica e che basano la loro socialità ancora su concetti tribali.
Probabilmente ora ci si aspetta una conclusione, un filo logico, un qualcosa che vi possa far dire: questo brutto pezzo, alla fine, è un bel pezzo. Ma non è così. Il mondo non è così. Internet non è così. È il sogno che non c’era, non c’è mai stato e, molto probabilmente, non ci sarà mai.