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Lorenzo Bonaffini 12/10/2018 8 minuti
Nella mia vita ci sono stati momenti in cui giocare mi rendeva ansioso, e un persistente strato di inquietudine permeava l’atto in sé di mettere mano a mouse e tastiera. La passione coltivata sin da bambino (ciò che ritenevo essere in grado di diventare il medium di riferimento dell’ipertrofica società in cui faticavo a sentirmi a mio agio) diventava un’ombra oscura, portatrice di dolore. Altre volte, invece, nei videogiochi ho trovato la stessa pace che si può provare nel leggere il libro giusto al momento giusto. Le implicazioni di un dettaglio di gameplay o di un’ambientazione particolarmente ispirata sapevano darmi le stesse sensazioni, e diventavano un modo per sublimare ciò che non mi piaceva di ciò che avevo intorno, grazie alla potenza di un’espressione artistica (forse lo scopo più nobile di un qualsiasi prodotto dell’intelletto umano). Eppure, arrivato all’ingresso della mia personalissima selva nel mezzo del mio dantesco percorso di vita, ho imparato che gli estremi della gioventù, quando ancora siamo pervasi da quell’invisibile polvere che alimenta il sacro furore dei vent’anni, si assopiscono per lasciare spazio a nuove sensazioni. Così, ho scoperto che giocare a 30 anni mi rende piuttosto malinconico.
Solo fino a qualche anno fa una buona metà della mia esperienza ludica veniva veicolata dal multiplayer locale, e pensare di avere un solo joypad a casa sarebbe stato impensabile. Se a questo univo la fascinazione che avevano esercitato su di me Ultima Online e i mondi persistenti di Neverwinter Nights, si poteva dire che passavo più tempo a giocare in compagnia che da solo. La socialità era una componente ben presente, sia fisicamente, seduti nel più classico dei divani scomodi da casa di studenti fuori sede, sia online, grazie a stilemi di gameplay che sapevano unire la rete globale alla capacità di vivere mondi alternativi in cui poter intrattenere rapporti colmi di significato. Anni dopo, un solo joypad riposa sul mobile che ospita la mia fida PlayStation 4. Tra gli amici persi e quelli inghiottiti dalle convenzioni borghesi, fatico a rammentare quando è stata l’ultima volta in cui ho sfidato a Tekken qualcuno seduto al mio fianco.
Accedendo il PC tutto assume dei contorni ancora più tragici. I tempi di Ultima Online e Neverwinter Nights sono finiti, sepolti prima dal modello theme park di World of WarCraft e poi dall’ondata inarrestabile del gaming competitivo, nonché della spettacolarizzazione vojeuristica dello streaming. Gli unici titoli multiplayer che posso trovare sull’hard disk sono un manipolo di giochi di carte, usati più che altro come forma di cura a una certa nostalgia del me fanciullino che giocava a Magic. È per questo che quando lancio Gwent, Legends, Hearthstone o qualche altra passione cartacea fugace come un amore estivo, mi sento terribilmente solo. È vero: posso dire di aver riscoperto, quando con la morte dei forum pensavo non ne avrei mai più avuto la possibilità, la bellezza di fare community, tra server di Discord e gruppi di Facebook poco cancerogeni. Sono persino riuscito a trovare del bello nello streaming, grazie ad alcuni piccoli giocatori capaci di creare una socialità sana, al di fuori dello showbiz di Twitch. Ma non basta, perché mi rendo conto di come siano meri palliativi rispetto a come vivevo una volta il giocare in compagnia. La prima delle mie malinconie si palesa così: avere a disposizione milioni di possibili partner ma in realtà non averne nessuno, come fossimo persi in una città dove tutti parlano una lingua sconosciuta.
Capita sempre più spesso di innamorarmi in modo fragoroso di un videogioco: con una semplicità disarmante mi incanto ma, altrettanto velocemente, mi ritrovo annoiato e mi chiedo cosa mi spinga a dedicarci più di dieci ore. Il velo che con cura avevo disposto tra me e il mondo intorno viene strappato, e la ricaduta sul suolo non può che essere netta. Mi basta dare un’occhiata all’elenco dei giochi scaricati su Steam – così come alle icone sulla dashboard del sistema operativo di una console – per far sì che all’affezione si sostituisca una forte inquietudine: non riuscirò mai a giocare (e amare) tutto quello che vorrei sperimentare. Sindrome da moderno videogiocatore, con abbastanza soldi per sfruttare gli sconti e le promozioni ormai presenti in modo sempre più ammiccante, ma con troppo poche ore al giorno per effettivamente godere di tutto. Basterebbe comprare meno, qualcuno potrebbe obbiettare, ma più vado avanti e più mi ritrovo inerme di fronte al canto da sirena del folle mercato videoludico. Come rimanere insensibili di fronte alla possibilità della conoscenza? Una sfida che non riesco a non raccogliere.
Mi basta dare un’occhiata all’elenco dei giochi scaricati per far sì che all’affezione si sostituisca una forte inquietudine
In backlog ho decine di giochi di ruolo che mi potrebbero tenere occupato per mesi, avventure grafiche cyberpunk perché è impossibile resistere al richiamo bladerunneriano, simulativi e strategici che per padroneggiarli non mi basterebbero anni. Solo flussi di dati che riposano su supporti fisici, ma che osservo mestamente nella consapevolezza che con ciascuno di loro non potrò mai convolare a nozze. Un po’ come guardare indietro a tutte le proprie relazioni sentimentali fallite, con quella strana misticanza di tenera nostalgia e furioso risentimento. Il momento più brutto arriva sempre quando cancello un gioco installato senza averlo aperto una singola volta. Un’anti-epifania che mi fa capire come sia inevitabile alimentare questo circolo vizioso; a un titolo cancellato senza averci passato in compagnia neanche un’ora si sostituisce una nuova passione digitale pronta in potenza a mangiarmi il cuore, ma destinata a non essere mai consumata. La seconda delle mie malinconie si manifesta così: avere a portata di mano tutta la conoscenza videoludica del globo terracqueo ma non poterla gestire, spazzato via dall’imperante capitalismo dell’industria e dagli aggressivi modelli economici che ne conseguono.
Se è vero che l’uomo è un animale che vive di narrazione, riesco a capire perché negli anni ho sempre cercato qualcosa di più nel medium. Ci è sempre piaciuto raccontare storie, e spesso la nostra stessa ontologia è stata definita dal fatto che non possiamo fare a meno di narrarle: alla fine, tra una pittura rupestre e GTA V passano molte meno differenze di quello che uno potrebbe essere portato a credere. Più crescevo e più venivo stimolato dagli impulsi intellettuali che il mondo universitario ci vomita addosso; più invecchiavo e più mi rendevo conto che al videogioco stavo cominciando a chiedere di più. Scoprire il mondo della ludologia, nonché fidati compagni di infiniti simposi videoludici come Davide Mancini e Mauro Ferrante, fu uno dei momenti più pregnanti della mia carriera di videogiocatore. Fu bello anche perché la nostra maturazione come “filosofi” del videogioco avveniva in parallelo a quella dello stesso medium che ogni giorno analizzavamo. L’esplosione del mercato indie consentiva sia di portare nuovi giochi slegati dalle logiche di mercato, sia di sensibilizzare le grandi case di sviluppo a osare di più, a scardinare gli stilemi a cui per un ventennio eravamo stati abituati. Alla lunga, però, non ci vuole molto perché una controcultura diventi una sottocultura.
La necessità di ribaltare totalmente il videogioco si assopisce, così come facciamo noi, ormai ex pensatori del ludico, quando ci affacciamo all’età adulta. A volte mi dico che forse vuol dire diventare “grandi” e quindi crescere, fare i conti con le proprie responsabilità e inevitabilmente vivere i momenti videoludici di pura gioia con un peso che a diciott’anni non avresti mai pensato di dover portare. Alla fine, neanche il rifugio della filosofia può salvarti, e finisce che non si riesce più semplicemente a godere, intrisi di un’ostinata volontà nel volere scavare sempre più a fondo, fino a quando del videogioco stesso non ne rimane più traccia. Un’indole che ho sempre esecrato, nociva nel suo annichilente desiderio di sovrastrutture mentali, incapace di veicolare il vero valore di un medium che non ha bisogno di altri critiche o linguaggi che non siano i propri. Mi chiedo se giocare abbia ancora un senso: a volte è quasi come se – decantandone la perenne gioventù – ne abbiamo decretato un’inevitabile anzianità. Eterno giovane incompiuto, sostanzialmente il terzino destro di qualche squadra di provincia da bassa classifica di Serie A, destinato a non diventare mai adulto. O forse, invece, il videogioco è diventato “grande” assieme a me. È invecchiato e si è scoperto bloccato nel suo non saper assumere pienamente il ruolo di cantore dello spirito del mondo. La terza delle mie malinconie conclude così il mio lamento.
Che poi, se ci ripenso, quel terzino destro dovrebbe avere la mia età. Me lo ricordo ancora dieci anni fa: era esaltante vederlo correre sulla fascia e avevo finito per abituarmi a scandire la mia vita con la sua carriera. Quando mi sono reso conto che non sarebbe mai stato annoverato tra i “vincenti”, ho capito che alla fine, io, lui e la cultura videoludica non siamo così dissimili: eternamente malinconici e terrorizzati dall’idea di non aver saputo crescere davvero.
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