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C'è vita oltre il classico modo un po' tossico di intendere il multiplayer?

C'è vita oltre il classico modo un po' tossico di intendere il multiplayer?

A ottobre del 2018 Sony ha aperto i suoi server al cross-play di Fortnite. Questo vuol dire che da due anni e mezzo a questa parte potete giocare al vostro battle royale preferito insieme a Gigetto della 3°C che ogni giorno vi scherniva vantandosi delle sue doti di giocatore provetto. L’autarchia tipica del colosso giapponese si era arresa di fronte alla pura ovvietà: il multiplayer non è più solo una sezione accessoria, ma la faccia principale del prisma videogiochi, con le sue esigenze e le sue inevitabili problematiche.

Che succede quindi? Che ormai chi sviluppa giochi passa metà del tempo a grattarsi la testa sul come inserire una componente online decente. Decente vuol dire che sia ben integrata nel gioco, che abbia un’aspettativa di vita tale da continuare a generare introiti e sia in grado di ritagliarsi una fetta di utenza considerevole. Peccato che “sviluppare una buona componente multiplayer” voglia spesso dire dare vita a un gioco autonomo, con dinamiche ben precise, problematiche per nulla scontate e costi di sviluppo e infrastrutture non trascurabili a livello di budget.

Ora, qual è la riflessione che scaturisce in me dopo questo annuncio? Che continuo a trovare irritante – se non insopportabile – il multiplayer come lo conosciamo oggi. Sono convinto che abbia tirato fuori il peggio dall’utenza e il peggio dai giochi stessi. Sono parimenti certo che la strada intrapresa e consolidata non sia l’unica percorribile e – a dirla tutta – nemmeno la migliore. Mi si conceda l’esagerazione da provocatore. Non è una figura che mi appartiene, quindi per cercare di rendere più tollerabile questa sentenza infamante risponderò virtualmente alle possibile critiche che si possono, giustamente, muovere a codesta affermazione.

Sei scarso come la merda

Caro amico dal pene piccolo che deve svilire la virilità altrui per confermare la tua, forse sì… forse non ho più tempo, voglia e pazienza di rendermi competitivo nel crogiolo o nel multiplayer di Call of Duty. Forse, nel logorio della vita moderna, non mi rende estremamente felice e appagato passare le due ore libere che ho a costruire un fortino in un survival sandbox, per poi vederlo distrutto da due dodicenni che al day one avevano già 400 ore di gioco in cascina. Certo è un problema mio. Posso benissimo dedicarmi ad altro e lasciare che chi ha tempo voglia e capacità da spendere su un titolo possa farlo serenamente.

Dici così perché stai a rosicà

Fa parte dello spettro delle emozioni umane. Ma dopo che XXX_ShadowOfMomSayanSucker99_XXX mi ha cecchinato per la settantesima volta lo stimolo di migliorare se stessi può essere sostituito da quello della frustrazione e del tedio. Si può scegliere di persistere o abbandonare, ma il tutto fa parte di un pacchetto che è costruito per muoversi in modo unidirezionale, e scegliere l’abbandono è un fallimento per quanto riguarda il design.

Pure in un titolo “morbido” come Overwatch basta un mezzo errore perché la squadra proferisca ripetutamente cose brutte su tua mamma.

Mettiamoci nei panni dello sviluppatore per un momento. Qual è la mia posizione? Da un lato devo cercare di garantire il più possibile l’affluenza di utenti sul mio titolo: ergo, voglio che anche Nevade, pippa rosicona, trovi l’impulso di tornare a giocare online sui miei server. Dall’altro ho una fetta di utenza hardcore – come il sopra citato XXX_ShadowOfMomSayanSucker99_XXX – che dopo 2500 ore si troverà perfettamente a suo agio e, probabilmente, si lamenterà per ogni bilanciamento o modifica: nel migliore dei casi potrebbe minacciare di morte il mio cane, nel peggiore abbandonare il gioco per passare alla concorrenza. Insomma… per cercare di avere dieci utenti nuovi, rischio di perderne trenta acquisiti.

Praticamente il normale flusso di design viene filtrato molto più finemente da logiche di mercato che, spesso e volentieri, portano a decisioni scellerate pur di accontentare una indistinta massa di voci che blaterano cose totalmente diverse. Ne consegue un inasprimento dell’esperienza, una diluizione che cerca di livellare il tutto a una formula basica, un calmiere unico che tenga mansueta tutta l’utenza in generale.

Sono convinto che il multiplayer, per come lo conosciamo oggi, abbia tirato fuori il peggio dall’utenza e il peggio dai giochi stessi

Ci sono videogiochi falliti nell’arco di poche settimane che non hanno saputo ascoltare i capricci dell’utenza. Ce ne sono altri che, invece, a forza di rincorrere i capricci di questo o di quello si sono trasformati in schizofreniche aberrazioni. Capiamoci: sviluppare un gioco vuol dire principalmente saper rispondere a esigenze di mercato, soprattutto se ragioniamo a certi macro-livelli. Nel caso delle componenti multiplayer, tuttavia, il problema esplode quando entra in campo la coesistenza di un bacino di persone variegate, che affrontano la competizione in modo diverso. Insomma io non dovrò giocare tutto, ma chi ha sviluppato il titolo vuole esattamente il contrario, perché altrimenti è costretto a ricorrere a sistemi poco convenzionali per monetizzare sugli utenti abitudinari. Salutate tutti le loot-box con la manina.

Ma a me fa piacere giocare con Gigetto… fatti i cazzi tuoi

Anche a me piace giocare con Gigetto. Per questo motivo, le mie poche esperienze multiplayer spesso e volentieri si trasformano nell’equivalente di co-op locali, dove ognuno sta sul divano di casa sua. Ma questo accade con persone fidate, che conosco da una vita e che sono amici, prima ancora che compagni di attività ludiche. E questo cambia molto le regole della tenzone. Il poter vivere insieme un’esperienza è sempre stato un punto vitale nei videogiochi, ma non sono del tutto sicuro che questa estensione globale abbia veramente portato a grande giovamento.

Mi spiego meglio. Spesso e volentieri la buona riuscita di una partita in cooperativa è affidata a un unico fattore fondamentale: la coordinazione. Quando si va a comunicare con un estraneo bisogna fare affidamento su una serie di postulati che è difficile riuscire a far convergere. Per prima cosa bisogna sperare di trovare una persona che abbia l’attitudine e l’umore corretto a dialogare; sicché, se non becchi il fenomeno la cui skill primaria è offendere le genitrici altrui, va cercato di costruire sul momento un legame umano minimo (agonistico o meno) per poter dialogare. Siamo entrati nel reparto sociologia. Piaccia o meno, i videogiochi sono un luogo di incontro dove gruppi di persone variegate interagiscono a livello mondiale, alla stregua di un attore principale nella moderna dissertazione della vita sul web, che tutto è tranne che banale o irrilevante. Ora, diciamo che io e il Gigetto di turno siamo riusciti a parlare per più di cinque minuti senza dover per forza ricorrere a arzigogolate ingiurie. Il punto è che adesso, per giocare correttamente, io devo (e Gigetto deve) valutare quali sono le mie capacità e le mie criticità. In un gruppo consolidato questa operazione è già stata fatta: anni di conoscenza rendono palesi pregi e difetti delle persone e sviluppano, coi giusti ritmi, le abitudini corrette per rapportarsi tra individui.

Il poter vivere insieme un’esperienza è sempre stato un punto vitale nei videogiochi

Con Gigetto diventa difficile far quadrare tutti ‘sti rapporti nei trenta secondi pre-partita: il rischio è che, dopo la terza morte di fila all’inizio del livello, lui si sconnetta, imprecando contro i miei avi. Gigetto ha ragione: non è colpa sua, non è colpa mia. L’esempio più recente del “Learn play your class Noob” è nelle Incursioni di Destiny. Perfino l’introduzione della modalità dedicata a prendere dimestichezza con il dungeon si è rivelata un discreto fallimento quando, spesso e volentieri, la gente buttava fuori i neofiti dalla partita alla terza morte. Basta peraltro lanciare un MOBA qualsiasi per capire di cosa sto parlando. Insomma… dobbiamo divertirci tutti, o alla fine queste prelibatezze ludiche sono appannaggio di pochi eletti? Non mi sento di fornire una risposta, ma sono abbastanza certo che questo è, in primis, un problema di design.

Ammesso e non concesso che con Gigetto vada tutto bene, non è comunque scontato che l’esperienza sia realmente soddisfacente. Provate a immaginare di giocare A Way Out (dove il legame emotivo dei due personaggi è il fulcro di tutta l’esperienza) con uno sconosciuto con cui non empatizzate. Tutto il presupposto rischia di impoverirsi e sfaldarsi completamente.

Da un punto di vista strettamente agonistico, invece, il risultato cambia a seconda della propria attitudine. Personalmente non sono mai stato una persona competitiva, e già solo questo mi fa scendere l’appeal di molti titoli a zero, perché passare due ore a fare lo score migliore, spesso e volentieri, mi sembra un’attività vacua e priva di valore (ma questo è veramente un problema solo mio).

Eh ma gli esseri umani sono animali agonistici… stacce, stronzo!

Assolutamente sì, ma l’agonismo nello sport (per prendere il primo esempio positivo possibile) si accompagna spesso al fatto che più persone si trovano faccia a faccia sullo stesso campo, all’interno di un contesto dove sono in vigore le più basilari norme sociali.
Il calcio ci insegna che, se la sfida si fa sentita, è normale lasciarsi trasportare dall’emozione e tirare fuori una parola o un gesto di troppo. Ciò che accade spesso e volentieri sui server di un qualsiasi gioco competitivo supera invece di gran lunga la sottile linea che separa la partecipazione dal bullismo.

Dobbiamo divertirci tutti, o alla fine le prelibatezze ludiche del multiplayer sono appannaggio di pochi eletti?

Senza aprire i libri di testo sul contratto sociale di John Locke, risulta ovvio come dare vita a una community priva di tossicità sia una chimera quasi irraggiungibile. Certo, non tutti sono stronzi e non tutti sono scellerati, ed esistono centinaia di esempi positivi e di giochi virtuosi. Tuttavia, per la legge dei grandi numeri, nel momento in cui fai un salto nel buio ed entri in un server, la probabilità di trovare un ambiente favorevole non è proprio delle più altissime.
Se sei una femminuccia, poi, lasciamo perdere, ché è pure peggio.

Di nuovo, non è un problema legato al titolo o alle meccaniche di gameplay, bensì al contesto culturale. I videogiochi online (ma questo vale anche per i grandi social network) sono piazze pubbliche globali, dove la combinazione di anonimato, ordine di grandezza e accessibilità portano a conflittualità di rapporto che sono sotto gli occhi di tutti. Nel momento in cui il gioco incanala una sfida dove vige solo ed esclusivamente il predominio sull’avversario, è abbastanza semplice presagire quali siano i possibili risultati.

Vabbè allora giochiamo tutti a Il mio piccolo pony di ‘stocazzo, così sei meglio te

Senza nulla togliere ai piccoli e dolci Pony, è chiaro come non esista una soluzione univoca. Lo dimostrano le patch note di qualsiasi gioco online, i sistemi anti cheat, i regolamenti di ban o forum pieni di lamentele, di imprecazioni, di minacce. E non si può sempre e solo dire che “è colpa dell’utenza”, perché l’utenza non è una monade slegata dal resto del mondo: è un attore principe nel meccanismo di gameplay, al pari di design, grafica e sonoro, e come tale viene valutata, vagliata, indirizzata; è, insomma, parte attiva nel funzionamento stesso del gioco. Credo che chi sviluppa debba iniziare a tener conto seriamente anche di questo aspetto, spesso trascurato.

Il problema non riguarda solo chi si troverà col pad in mano, ma anche cosa verrà chiamato a fare, con quale sistema, con quali paletti e con quali scopi. Un set di regole comportamentali non sono solo una FAQ da inserire su un sito, ma possono e devono diventare parte integrante dell’esperienza (un buon esempio è il sistema di reward e penalità in Gran Turismo, che dà un punteggio al pilota a seconda del suo modo di guidare più o meno scorretto). Lodevole, quando accade, è il valorizzare il lavoro di squadra. Le lacune dei singoli non dovrebbero essere disabilità da irridere, ma gap da colmare grazie a uno sforzo congiunto verso un obiettivo comune, seppur inserite nell’ottica di dominazione e distruzione dell’avversario.

Gli esseri umani sono animali sociali, e le interazioni tra gli individui sono sconfinate e dalle sfumature più diverse. Limitarsi a raggiungere il kill-ratio maggiore è semplicemente denigrante rispetto alle facoltà umane. Non che non sia divertente, ma di base sembra essere l’unico standard, nato con le lan party di DOOM, e incapace di fare un singolo passo avanti in venti anni di storia.

Intendiamoci… non sto dicendo dobbiamo smettere di riversarci addosso chili di piombo. Tuttavia, le possibilità offerte possono benissimo superare le strutture agonistiche (che possono e devono sopravvivere, ci tengo a ribadirlo) per offrire esperienze diversamente sofisticate. Date le potenzialità tecniche e artistiche raggiunte oggigiorno, voglio credere esistano altre strade con cui più esseri umani possono interagire fra loro. Voglio credere si possano esplorare meccaniche in grado di favorire comportamenti sociali più interessanti del sedersi sulla faccia del cadavere avversario. Voglio credere che ci sia vita oltre il mero deathmatch.

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